Giorgio Gaslini al pianoforte

In questa quarta parte si prende in esame gli anni Sessanta, proprio gli inizi del decennio, l’attività del pianista, compositore e direttore d’orchestra che si può ben definire un artista in tutti i suoi aspetti a 360°, partendo dalla Musica Classica, con lo studio del pianoforte, della composizione e della direzione d’orchestra.

“[..] Dal lato artistico, il filone che preme era cominciato nel dopoguerra e si era sviluppatore brano Tempo e Relazione, fu chiarificatore. Avevo in mente che se avessi avuto nella musica una strada vincente, che mi soddisfacente, sarebbe stata la strada non percorsa da altri. Tutto ciò non era dettato da una volontà isterica di eccentricità, ma perché non potevo essere diverso da me stesso e non potevo essere uguale ai modelli, anche pregiati e eccellenti, che mi si ponevano. Questi modelli cosa offrivano a un compositore giovane, a un artista creativo europeo o italiano?

Il modello predominante della mia generazione era finalizzato alla scuola di Darmstadt, praticamente si guardava a Stockhausen, a Boulez, a Berio e più tardi Cage, come a una specie di verbo, di identificazione, unica via di uscita dell’empasse in cui si era venuto a trovare tutto il linguaggio e l’operazione creativa compositiva mondiale. Questo poi non era del tutto vero perché se si fosse, con più progressione di tempo, potuto avvicinare tra di loro i grandi classici del XX secolo come Pizzetti, Malipiero e Petrassi, per andare direttamente a Schomberg (l’anello più importante di questa struttura), non avremmo avuto quella frattura così netta. Ora possiamo vedere Petrassi come una colonna vitale, ma allora era poco eseguito e tra le altre cose veniva già superato dagli eventi, anche se poi la storia ha dimostrato che non si era fatto superare, rimanendo rimanendo un maestro storico della seconda metà di questo secolo”, il Novecento. “Molti compositori hanno anche smesso di scrivere, altri sono improvvisamente invecchiati di un giorno.

Negli anni Cinquanta avenne un’accelerazione incredibile, poiché fino al ’45 in Italia non si conosceva ancora Stravinsky, Alban Berg non sapeva neppure chi fosse.
In cinque anni si è verificato un’indigestione allucinante di tutto un periodo storico che aveva impiegato sessanta anni per essere conosciuto: improvvisamente si passò alla primavera di Darmstadt. A questo punto la nuovissime generazioni, che erano poi la mia, sono rimaste completamente impreparate davanti a una scelta di questo genere. Quindi molti, come dicevo, sono in ecciti di colpo, altri hanno preso questa strada e si sono praticamente bruciati, tranne pochissimi. In Italia quelli che si salvarono furono Vittorio Fellegara, Nicolò Castiglioni, Luciano Berio e pochi altri. Dovettero ancora passare dieci anni prima che venisse fuori Franco Donatoni, Sil anno Bussotti e altri che rappresentavano la seconda generazione dopo Darmstadt.

In questo senso non appartenevano né al mondo dei superati né alla nuova follia. Io non appartenevano a nessuno di questi due modelli, ma non mi sentivo neanche un pesce fuori d’acqua: avevo grinta e una grande determinazione! Con Tempo e Relazione avevo capito di appartenere a una vicenda completamente mia e che l’unica possibilità di un futuro era quella di percorre fino in fondo questa strada. Una strada che mi portava verso l’ignoto mi avrebbe portato molto dolore, ma molta gioia. Accettai totalmente, senza voler fare della retorica, questo mio destino e, visti oggi quei trenta anni che seguirono, devo dire che l’intuizione fu perfetta, perché ho avuto le più grandi soddisfazioni e le più grandi gioie che un artista possa avere, ma ho anche avuto i servizi di una ottusità, di una ferocia, di una cattiveria, di una stupidità e di un’invidia tale nell’ambiente musicale italiano, che fa vergogna a livello culturale e spirituale “.

“Come uomo, e saopiamo che non è mai molto distinguibile il lato umano dal lato artistico e creativo perché sono due cose estremamente connesse, devo dire che gli anni Sessanta sono stati dedicati a un cambiamento radicale della mia vita. Avevo cominciato a vivere una situazione di gruppo all’inizio degli Cinquanta, erano passati ormai quasi otto anni e questa situazione, iniziata casualmente e non in maniera determinata, aveva preso l’aspetto di un’utopia che poteva farmi arrivare alla scoperta di un modo di vivere insieme, che non fosse la famiglia e che non fosse il galug, cioè un gruppo comunitario. Negli anni Cinquanta queste cose non erano ancora di moda, lo diventarono negli anni Settanta.

Questa esperienza la feci con mio fratello ed altri e vidi, con mio orrore, che la conduzione di questo gruppo, ad opera di poche persone era diventato un feudo di uno o due membri. Quella che doveva essere una comune era precipitata nell’orendo baratro di una setta, dalla quale sappiamo che non di esce vivi. Cercavo di raddrizzare quella situazione, ma ogni giorno peggiorava e mi accorsi che ero di fronte un fenomeno patologico di gruppo. Purtroppo nella comune avevo una compagna, che era mia moglie e un bambino adottivo, per giunta molto malato. Ho resistito funzione di loro, ma quando ho visto che era impossibile recuperarli, ho rotto con questa esperienza, cercando di ricostruire la famiglia al di fuori di essa, ma non Fui seguito dalla compagna.

Per cui nel ’62, mi ritrovavo a 32 anni con 5000 mila lire in tasca e un vestito, non avevo più niente, mo era stato portato via tutto ed inoltre non avevo nemmeno gli affetti nei quali avevo creduto. Ebbi una reazione violenta, ed ero sicuro di avere agito con grande coerenza e grande onestà di fronte a me stesso e agli altri. Questo mi diede la forza per ricostruire interamente la mia vita. Dal punto di vista sociologico, l’Italia era uscita da dieci anni di guerra fredda, dieci anni di congelamento culturale e di iniziativa creativa di tutta la nazione: il neorealismo era finito, tutto era sotto la cenere. Possiamo ricordarci dei primi anni di Sanremo, la televisione: Lascia o raddoppia. Si distribuiranno milioni, ma in sostanza la polizia veniva mandata, senza saperlo, a picchiare gli operai e i contadini che occupavano le terre in meridione. Quindi un’Italia che stava uscendo da una situazione nazionale e internazionale di congelamento ed entrava in un decennio di un appagante boom economico che pagammo più tardi in modo tremendo. Assomiglia molto (anche se durò solo cinque anni) a quel decennio dal ’19 al ’29 di follia godereccia dell’America, pagata duramente nel ’29 col crollo della borsa di Wall Street e conseguente baratro economico e disoccupazione.

Abbiamo solo nel ’68, con la Rivolta Giovanile, che era tutto un fuoco di paglia, si voleva far credere agli italiani chiusi poteva vivere al di là delle proprie possibilità, evidentemente per farli votare in una certa direzione (esisteva il “pericolo” dell’avanzamento comunista)”. “Esposto il quadro generale nel quale mi trovavo a vivere e a dover agire, non ho mai pensato a scappare davanti agli eventi, infatti ho visto per esperienza che molti musicisti, partiti per l’America, di propria volontà e quindi non spinti da un evento bellico giustificabile (Hitler e il nazismo, per esempio), erano tornati in Italia, mossi dal richiamo troppo forte delle proprie radici.

Il mio atteggiamento verso l’America è stato sempre di estrema attenzione, a volte anche di curiosità e di fascino, ma non ho mai ceduto al mito americano in quanto tale, anzi ero contro a questo mi ha favorito quando nel ’76 ho deciso di far conoscere di persona tutta la mia musica all’estero. I miei dischi già circolavano, decisi quindi di andare in America per la prima volta (poi ci dono ritornato altre sei volte) non facendo l’americano o il polemico, ma ho semplicemente portato il mio lavoro musicale, le cose in cui credevo e che potevo far sentire.

Ho aperto questa parentesi per dire che non era proprio il caso di fuggire di fronte agli eventi e di fronte alle proprie radici, infatti decisi di affrontare questa difficile natura derivata dal fatto che non credevo a un’educazione di tipo accademico, anche se l’avevo attraversata e anche se su quel territorio ero vincente perché preso Sri diplomi. D’altronde tutta la grande musica del passato e del tempo mi aveva conquistato e occupato profondamente, sia negli studi che nella conoscenza, ma tutto questo non mi aveva trasformato in uno di loro, e anche la pratica del jazz non mi aveva trasformato in uno di loro, ed anche la pratica del jazz non mi aveva trasformato nel classico jazzista che ha come tipologia quella del consumarsi con la propria musica”.

“Non volevo rimanere un ibrido, volevo una mia sintesi, un strada che ho cercato tutta la vita e che ancora sto perseguendo. Ho avuto contro l’intero schieramento musicale, fatta eccezione per alcuni individui molto liberi e illuminati, che mi hanno rispettato e hanno creduto in me. Queste persone le riconosco come personaggi di grande lungimiranza e civiltà, ma sono poche, non più di quattro o cinque in Italia. Dopo Tempo e Relazione non abbandonai il campo e nel film La Notte sviluppai un’esperienza completamente nuova, cioè una pellicola musicale, di un grande autore, che mi aveva chiamato per partecipare anche come attore musicista il tutta la seconda parte del film: “diretto da Michelangelo Antonioni uscì il 24 gennaio del 1961, con la fotografia di Gianni Di Venonzo e con la distribuzione italiana do Dino De Laurentis.

“Ho letto recentemente” Giorgio Gaslini si riferisce all’uscita del film, “un’intervista fatta al regista Tarkowski, che cita il finale del film con questa mia musica, come uno dei momenti storici del cinema del XX secolo. La cosa mi fa molto onore in quanto non conoscendo di persona il regista, mi ha molto sorpreso. Uscì anche il disco per La Voce del Padrone che sembrò degnati di pubblicare questa colonna sonora. Era un film mondiale, ma non capivo l’atteggiamento da padroni, facendomi il piacere di darmi il contentino. Nel frattempo questi due grossi avvenimenti mi avevano indirizzato nelle vera dimensione creativa. All’epoca di Tempo e Relazione, avevo iniziato, per la prima volta in Italia, l’insegnamento del jazz in una scuola musicale, a conduzione privata, a Milano in Corso Venezia 11, che aprì per me un corso di jazz con ottanta iscritti in due anni.

Inoltre fondai nuovamente un quartetto con musicisti italiani di jazz, sull’ora famosi. Volevo allargare l’esperienza di Tempo e Relazione, basata sul jazz dodecafonico interamente scritto, anche per l’improvvisazione. Tutto ciò richiedeva un tipo di musicista nuovo accanto a me, che fosse disponibile che avesse anche le doti della grande tradizione e una preparazione tecnica-musicale abbinata ad un profondo spirito, per lanciarsi alla cieca in una nuova avventura. Il partner lo trovai e ciò avvenne spontaneamente per una sua telefonata e per un mio desiderio di incontrare un nuovo compagno. Fu Gianni Bedori, sassofonista e multi-strumentista che era stato brevemente mio allievo nel corso di jazz alla scuola musicale di Milano. Ecco che ancora una volta nella mia vita le grandi follie generose che avevi vissuto, davano qualche frutto positivo. Bedori da quel giorno cominciò a provare con me e collaborammo per diciotto anni.

Qualche cosa di unico nella storia della musica italiana e che rende onore a questo generoso e bravissimo musicista della cui amicizia è collaborazione sono ancora commosso testimone e riconoscente amico. Quando incomincia a parlare Gianni di questa esperienza, lui mi seguì totalmente. Cercammo u contrabbassista e li trovammo in un giovane genovese che aveva suonato nelle orchestre sinfoniche e che si era trasferito a Milano. Si chiamava Bruno Crovetto, un giovane di un valore immenso, con suono intonatissimo e potente e una solidità ideale per quello che a davo cercando. Mancava il percussionista e lo trovammo nel miglior matto che veniva da Torino: quando i torinesi sono intelligenti e matti sono come minimo fedeli agli esempi che la letteratura e anche tutto il mondo creativo torinese avevano saputo esprimere. Franco Tonani era un torinese di questo tipo. Per me era il musicista più geniale che avevamo in Italia per quanto riguarda la percussione, perché sommata una sua estrema professionalità strumentale e jazzistica a un gusto celebrale del suono.

Era un artista che suonava di testa ed era meraviglioso mettere assieme la forza di questo contrabbassista dal suono straordinario e robusto, la cerebrità di questo percussionista così pungente, geometrico e astratto, il lirismo è la disperazione del suono di Bedori che era lancinante, ma anche molto umano. Dal progetto compositivo e dal mio poanismo che cucina e raccoglieva un pò tutte questa voci, uscì un quartetto che ha fatto storia nella musica italiana”.
Naturalmente il pianista Giorgio Gaslini prosegue rispondendo ad una delle tante domande, che l’autore del libro sul musicista milanese, gli pone. Adriano Bassi gli pone la domanda: “Come prese forma e come visse questo quartetto?

Gaslini, risponde: “La vicenda è abbastanza singolare e merita di essere raccontata. Queste cose appartengono alla mia vita e alla vita di poche altre persone, ma è importante dirle perché si scoprono determinati aspetti che altrimenti rimarrebbero solo come esperienze personali.
Se di una storia si tratta, queste cose ci devono essere, penso che sia utile per il giovane lettore e quello non giovane, per l’addetto ai lavori e per il musicista o anche per il semplice appassionato o curioso, sapere come sono andate le cose in quegli anni e sapere quali battaglie abbiamo dovuto, gioiosamente e dolorosamente sostenere, per portare una situazione a essere quella di oggi.

Un situazione che pur tra contraddizioni, ha fatto esplodere a un livello nazionale di grandissima domanda e di grandissima risposta. Quindi i giovani devono sapere quello che oggi hanno in eredità, anche se c’è ancora un grande lavoro da fare e toccherà a loro, perché c’e stata della gente che ha preparato questa situazione e ha dovuto affrontare giorno per giorno delle battaglie immani. Per quanto riguarda il quartetto dobbiamo pensare che: con Tempo e Relazione, con l’apertura del corso di jazz, primo in Italia in assoluto (anno 1957), con il film La Notte, trattato in modo rivoluzionario e con la fondazione del mio quartetto del quale ora parlerò, io avevo come situazione generale l’incomprensione totale del mondo del jazz italiano degli anni Cinquanta. Tutti i jazzisti che andavano per la maggiore non solo mi decisero, ma anche mi boicottarono. L’altro ambiente della cosiddetta musica colta (termine che cito ironicamente, perché è come se il jazz non fosse una cultura, in sostanza è un’affermazione di potere che fanno, pessimi neologismi che andrebbero analizzati alla luce del concetto di potere) mi guardava con una certa curiosità scettica; si davano di gomito con una ironia di fondo e qualcuno mi dava del matto.

Nessuno era dalla mia parte. In questa situazione generale, fondai il quartetto e insieme a questi tre ragazzi meravigliosi decidemmo di trovarci regolarmente per provare le mie nuove composizioni. Avevo in mente una suite che volevo intitolare Oltre, cioè oltre l’esperienza precedente, oltre i blocchi di potere musicale ideologico, oltre certi tipi di limiti anche locale, creandoci così un piccolo pubblico che ci seguiva costantemente. La suite Oltre poi fu protagonista di un paio di eventi clamorosi in campo nazionale e internazionale, nacque nota per nota calibrandosi su un tipo di verifica tra i musicisti ed un pubblico ristretto di gente eterogenea che entrava e diceva la sua.

Quando alla fine abbiamo avuto una suite pronta, io ho fatto una cosa pazzesca. Ero ancora alla Voce del Padrone come direttore delle edizioni e assistente alla direzione artistica, ma trovai ugualmente la forza di chiedere le dimissioni. Presi i soldi della liquidazione e, per prima cosa, arredati una casa nuova alle colonne di S. Lorenzo, molto bella perché intendevo portarci mia moglie e il bimbo, ma purtroppo non mi seguirono. Mi trovai comunque in questa casa che mi diede una grande atmosfera per potermi confrontare e lavorare.

Poi affittai il Teatro Odeon di Milano, teatro di prosa usato pochissimo per i concerti e produsse una serata intitolata: Oltre dove facevamo sentire questa suite e nella seconda parte una suite nuova, una cantata, per voce recitante, coro e strumenti intitolata: Donna che fu in assoluto il primo lavoro musicale, scenico, teatrale e concertistica, su testi interamente femminili. Eravamo nel ’62, il femminismo ancora non era alle porte, come sappiamo è nato negli anni Settanta e quindi 12 anni prima c’era stato questo mio lavoro all’Odeon di cui nessuna rivista femminile parlo, di cui nessuna donna, se non individualmente, si interessò, però io lo feci.

Era su testi femminili da Saffo sino a Marilyn Monroe. Fu un concetto incredibile, venne la critica in quell’occasione successe una cosa molto strana. Probabilmente erano presenti corrispondenti internazionali e nel giro di pochi giorni uscirono articoli in tutta l’Europa e in Italia. Fu un successo enorme. Produssi il nastro, lo pagai e la Voce del Padrone lo pubblicò, ma nel frattempo il mio nome era molto conosciuto. Per cui facevano anche un affare a farlo. Uscì il disco e vinsi il Premio della Critica Discografica Nazionale. Fu anche sulla” Rivista” Down Beat americana e giro mezza europa[…]”.

(Il testo virgolettato è tratto dal libro, “Giorgio Gaslini, ‘Vita, lotte, opere di un protagonista della musica contemporanea’, autore Adriano Bassi, prefazione di Enzo Restagno. Prima edizione settembre 1986. 1986 Franco Muzzio & c Editore Spa – Padova).

A cura di Alessandro Poletti – Foto Repertorio

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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