Il Jazz di Giorgio Gaslini

Continuo a parlare di questo importante musicista, il pianista Giorgio Gaslini, che durante il periodo in cui era ancora bambino dice: “[…] “Sono stati anni decisivi per me“. Intanto occorre pensare che ero a Milano, mio padre era in Africa e poco prima dello scoppio della guerra aveva scritto a me e a mio fratello di prepararci, perché ci avrebbe portato da lui, per frequentare le scuole. Aveva comprato una casa di cui aveva mandato le foto; era una bella casetta sotto un enorme albero (un baobob) dai rami lunghi venti metri. Eravamo molto entusiasti della notizia. Nella nostra fantasia di piccoli Don Chisciotte, sulla scia dei libri di Salgari avevamo fatto una cassettino in metallo on cui avevamo messo tutte le tinture di jodio, perché secondo noi quelle cose bisognava portarlei n Africa. Ci eravamo addestrati ogni notte a vegliare a turno, non si sa per che cosa, ma nella nostra fantasia tutto questo era bellissimo. Stavamo per partire: mancavano poche settimane, quando è scoppiata la guerra e papà ha dovuto ritornare di corsa, lasciando tutto là e venendo in Italia, per mettersi una divisa grigio-verde ed andare in guerra […]”.

Giorgio Gaslini prosegue il suo racconto: “Questa cosa segnò molto la mia adolescenza: vedevo scomparire amici che avevano quattro o cinque anni più di me. Erano bambini che andavano in guerra a combattere; una cosa ingiusta, una cosa folle […]”. Nel periodo della seconda guerra, si ascoltava il jazz e la musica di altro genere, come la classica alla radio. […]” In Italia non arrivavano certi dischi, però qualche brano tramite le orchestre commerciali di livello, come quella di Pippo Barzizza o Cinico Angelini, i quali avevano introdotto un nuovo gusto, soprattutto Barzizza”, riuscivi ad ascoltarlo.

“Le persone che mi avevano contattato tentavano di suonare una tematica italiana e magari anche un pò americaneggiante, senza averne l’aria. Si erano rivolte a me con convinzione, e io finii per accettare. Inizio a provare senza sapere fare niente, perché suonavo solo il pianoforte. Lentamente sono cresciuto con la passione, la determinazione e ho diretto concerti… figuratevi solo avevo dodici-tredici anni.

I concerti si facevano nella vicina Galbiate, centro più grosso. Il batterista, mio carissimo amico di nome Mario Panzeri, morto tragicamente in un incidente di motocicletta per evitare un ubriaco, era un ragazzo molto sveglio e conosceva il jazz più di me. Era molto sportivo e si vestiva alla moda: una mosca rara in quel contesto rurale e contadino. Con questa orchestra mi feci una grossa esperienza, vincendo la paura del pubblico. In questo modo passarono gli anni della guerra.
Molte volte si vedevano di sera i fuochi su Milano, sotto le bombe, l’orizzonte era rosso dalle fiamme e noi eravamo sempre più tristi […]”.
“[…] Come ho detto prima, frequentavo a Lecco gli studi umanistici del ginnasio. Per buona sorte avevamo a disposizione tutta la biblioteca di papà e io leggevo continuamente, in particolare il teatro russo, che mi interessava moltissimo. A scuola studiavo il francese, avevo tradotto delle poesie e così incominciai a scrivere anch’io quasi per puro divertimento.

Scrissi un libro giallo, un thriller. Inoltre avevo un quaderno dove annotavo le frasi, riflessioni mie e anche dei mie compagni di scuola, ai quali chiedevo di scrivere qualcosa. Per quanto riguarda la musica, invece, ormai avevo perduto la mia insegnante di Milano a causa della lontananza della città, però avevo sempre il pianoforte che studiavo tutto il giorno.

Coni risparmi mi ero comprato alcuni pacchi di musica classica e romantica, Gaslini intendeva spartiti musicali di: “Chopin, Liszt, Beethoven, Mozart, Schubert, e lì studiava da solo. Si verificò più tardi un episodio molto importante per me. Mio padre, essendo venuto a casa in licenza, mi fece conoscere il giovane Gino Negri, dicendogli di aiutarmi nello studio musicale. Negri da poco si era diplomato ed era diventato famoso al Festival di Venezia con l’antologia di Spoon River.
Ne approfittai e trovai il coraggio di scrivergli, esternandogli appunto il mio desiderio di studiare composizione. Il destino, finita la guerra, me lo fece incontrare e infatti fu lui il mio primo maestro. Quindi mentre la nazione stava riprendendosi dal disastro bellico, io stavo crescendo […]”. “[…] Avevo 16 anni e la mia generazione era nata nel periodo fascista. I giovani avevano avuto l’adolescenza sconvolta dal massacro bellico, arrivato fino nel cuore delle nostre case, distruggendo i rapporti umani ai quali eravamo legati. Tutti erano stati coinvolti in una catastrofe di proporzioni gigantesche emergeva la follia di una dittatura dal volto rassicurante e fiero, ma dal secondo volto ottuso, provinciale e dissennato, che ha portato a morire centinaia di migliaia di giovani in terre lontane per motivi incomprensibili.

La fisionomia italiana operosa, creativa e affidabile è diventata imperialista e colonialista, esaltando i più bassi istinti italioti, maschilisti, patriarcali e a separato una nazione, dal passato culturale importantissimo, da tutto il resto della cultura mondiale: facendone un paese provinciale, mettendolo più tardi alla mercé di un’influenza americana altrettanto pericolosa […]”.

“[…] La vita a Milano era cambiata. I reduci tornavano dalla guerra (solo i pochi rimasti). Esisteva lo stupore di scoprire che erevamo diventati una Repubblica, o per lo meno una democrazia, quindi ci si rendeva conto della scoperta un nuovo modo di far politica. L’identità delle persone in questo nuovo contesto non era ancora chiara; i giovani non avevano però comune di massa (questo peso di massa l’hanno acquistato solo dalla metà degli anni Sessanta in poi) quindi erano individualità sparse, non aggregate, però c’erano. Lo stupore dei cittadini era quello di scoprire una nuova libertà non sapendo ancora che forma avrebbe permesso e suscitato. Eravamo in pieno periodo di ricostruzione e di fondazione dell’italiano e in particolare del milanese […]”.

Giorgio Gaslini, prosegue nei suoi ricordi: “[…] I giovani milanesi non erano massificati, si potevano trovare nei locali da ballo, forse all’università, ma non esistevano ancora grandi assemblee. La nuova generazione usciva da una guerra e quindi con grandi ferite. Ricordo benissimo che si era creato un grande impulso verso l’impiego di giovani tuttora creato in funzione delle nuove leve. Malauguratamente questa tendenza cessò al termine degli anni Quaranta, perché la generazione precedente riprese il potere. Infatti negli anni Cinquanta era difficilissimo che un giovane riuscisse a emergere. Invece negli anni dal ’45 al ’50 c’era spazio ed è proprio in quel contesto che ho potuto fare le mie esperienze. Quel periodo evidenziarono gli uomini di cultura e di arte, che non erano i giovanissimi, ma quelli che avevano sofferto i dieci anni precedenti di oscurantismo sociale e che si trovarono, finita la guerra, ad avere una proposta già matura dal punto di vista artistico. Nel dopo guerra abbiamo ritrovato i pittori, i letterati, come Pavese, Quasimodo, Montale, Ungaretti. Esisteva il movimento di corrente Treccani, Gottuso.

Si era formato un movimento di apertura alla cultura internazionale che aveva l’aspetto di una cataratta, come una diga artificiale, che aveva lasciato in secco la vallata e il letto del fiume, si fosse improvvisamente aperta e la massa di notizie, di pubblicazioni precipitasse a valle. Ricordo che in quel periodo uscirono tutti i romanzi americani più importanti: Via col Vento, Passaggio a Nord-ovest, Pian della Tortilla, etc., che io lessi e che non erano stati dati alla massa. Pochi li conoscevano. Più tardi ci fu un’apertura verso il cinema con il Neo-realismo italiano. I primi film di Rossellini e di De Sica segnarono un’epoca e in questo clima è chiaro che esisteva un fermento di riscoperta delle novità.

Parlo di artisti che allora avevano trent’anni. Accanto a una ricostruzione economica, geografica e urbana della nazione, si poteva scoprire qualche cosa di nuovo anche nell’arte. Non dobbiamo dimenticare, riparando di Milano, La nascita del Piccolo Teatro e la ricostruzione della Scala nell’immediato dopoguerra: due grandi avvenimenti che segnarono la ripresa dell’autorevolezza culturale di questa città, non più all’insegna di una mortificazione censoria, ma all’insegna di una nuova cultura che entrava specialmente nel Piccolo Teatro” milanese. “La Scala iniziò su un piano molto classico, ricordiamoci la tradizione con Toscanini, che inaugurò e portò dall’America la Rapsodia in Blue di Gershwin. Fu molto criticato! Oggi se avesse portato Ives, ma allora Ives era ancora lettera morta.
Già in America, molto probabilmente, pochi sapevano chi era Ives. Il Piccolo Teatro” milanese ” cominciò invece a proporre testi che non erano mai stati rappresentati.
Si iniziò un grosso lavoro di scavo culturale e di nuove ricerche. Non dimentichiamoci il cinema, l’industria che riprendeva, la moda, la letteratura, la poesia, insomma la realtà nuova e che si affacciava.

In questo contesto si svolse la mia vita.[…]”.
“[…] Mi ricordo che, dopo la guerra, nelle serate di primavera amavo camminare e andavo da Corso XXII Marzo dove abitavo fino al Conservatorio. Sentivo suonare e mi commuovevo, dicendomi: Io voglio andare là dentro, perché questo e il posto, voglio studiare lì. Mi sembrava una montagna insormontabile, non sapevo come avrei potuto farcela. Parlandone con papà, uscì la soluzione di andare a studiare con Gino Negri. Andai da Gino, col quale ero stato in contatto epistolare durante la guerra, il quale mi dette delle lezioni teoriche. Passò pochissimo tempo e feci la domanda di ammissione al Conservatorio per il 1° anno di composizione. Gino Negri mi accompagnò una mattina all’esame di ammissione e mi ricordo che eravamo in due, l’altro si chiamava Nicolò Castiglioni (oggi è un grande compositore). Era un ragazzo gentilissimo, di grande bontà d’animo, con questo suo handicap fisico alla gamba”. “Fummo introdotti uno per uno, in un piano terra, buio, la luce prenetava da un finestrone in alto, c’era un pianoforte verticale e cinque signori accogliamo, molto attempati.

Ricordo che il direttore era Pick Mangiagalli, l’impostazione era ancora quella prebellica del Conservatorio, non era cambiato niente, gli stessi uomini mi dissero: ” Ragazzo, tu vuoi iscriverti al primo corso di composizione, facci sentire qualche cosa!” Mi guardavano dall’alto in basso, erano tutti in piedi e io mi sentivo una formica. Non mi misero assolutamente a mio agio. Una volta lo studente veniva visto un pò come un verme, doveva essere trattato male, con sufficienza; in genere il tono della scuola era questo: quelli nei banchi erano quelli che dovevano imparare tutto e quelli che stavano alla cattedra erano quelli che sapevano tutto. Eppure il vero insegnante che non sa, non nel senso di ignoranza, nel senso che non deve dare certezze, deve mettere delle inquietudini, sollecitare e cercare insieme all’allievo.

Questo senso di umiltà oggi comincia a entrare nel comportamento dei docenti poi illuminati. Quindi io venivo guardato dall’alto al basso, ma siccome ero già uomo moderno, del dopoguerra un ragazzo che aveva alle spalle cose coraggiose e soprattutto una ricerca personale sull’improvvisazione, che mi aveva portato lontano dallo modo di vedere la musica, dissi: “Signori, non so scrivere questa musica, altrimenti non verresti a studiare composizione, ho proprio bisogno di imparare a scriverla, però la so suonare”, così mi misi a eseguire dei pezzi. Erano brani che, con qualche influsso romantico, sapevano già di novità e soprattutto di dissonanze, di cose ritmiche. Esisteva praticamente al 90% l’esperienza dell’improvvisazione, erano improvvisazioni fissate.

Suonai questo pezzo, poi ci fu un attimo di silenzio, dopo mi guardarono come se fossi un deficiente. Mi guardaron e non so se pensassero che quel brano non fosse mio o me l’aveva insegnato qualcuno, o se proprio facevo schifo.
Il responso fu “no, non lo ammettiamo”. Ignoranza culturale, dovuta forse al regime fascista che l’Italia a vissuto. “Mentre fu ammesso Nicolò, che nei miei confronti fu dispiaciuto. Rimase malissimo, ma in me ci fu una reazione di grande rabbia, perché sapevo che questo risultato avrebbe cambiato la mia vita, non sapevo ancora che forse sarebbe stata la mia fortuna. Ero offeso dell’atteggiamento accademico e rigidi di questa gente, che in sostanza dimostrava che: la musica e quella che conosciamo e insegnato noi e tu sei inadatto e negato ad accedere in questo mondo solo per pochi eletti: noi. Questa è la risposta che ho sentito da quella gente. In tutto questo può aver giocato il mio eccessivo candore, l’entusiasmo, la mia passione sfrenata per la scelta che avevo fatto da solo e per la quale mi ero preparato[…]”.

(Il testo virgolettato è stato tratto dal libro Giorgio Gaslini ‘Vita, Lotte, opere di un protagonista della musica contemporanea’, autore Adriano Bassi – prefazione di Enzo Restagno. 1996 Franco Muzzio & c editore Spa, prima edizione settembre 1996.)

A cura di Alessandro Poletti – Foto Repertorio

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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