E’ giusto a volte, anche quando fai da anni questo mestiere con passione, riprendere discorsivi che altri tuoi colleghi hanno anticipato. Gianluca Veltri di Giorgio Gaber ne descrive in poche parole una antologia del personaggio, di quel commediografo e cantautore che ha stupito almeno due generazioni e nono solo in Italia, o soprattutto in Lombardia dove era nato. Gaber il Signor “G” – dice Veltri – col suo teatro-canzone ha attraversato quarant’anni cruciali della storia italiana, in una compenetrazione continua tra pezzi di vita pubblica e privata. Ironico, ruvido, istrionico, nel corso degli anni è stato definito “anarchico”, “vate dei cani sciolti” e perfino “l’Adorno del Giambellino”, ma qualsiasi etichetta risulta insufficiente a riassumerne la personalità. Gaber.

Tra le canzoni più belle di Gaber, che hanno suscitato in me una forte riflessione e che ricordo con grande piacere è “LA LIBERTA’“. Uno spaccato dell’Italia che non pare libera nemmeno sopra una pianta nonostante l’arrivo di una democrazia popolare dopo il periodo fascista. Certo, sostiene Gaber, mi sento libero…, ma vivere, non riesco a vivere… ma la mente mi autorizza a credere che una storia, mia positiva o no, è qualcosa che sta dentro la realtà e la libertà… Un passaggio, quasi storico per quelli della sua generazione, se vogliamo anche politico, che vuole uscire dai soliti canoni di analfabetismo del dopoguerra e rimodulare il sistema rivoluzionario e culturale in un paese tutto da costruire e fare crescere al di là dei propri confini scoprendo l’arte dell’arrangiarsi, del far da se, di quel piccolo artigianato locale.

Giorgio Gaber metteva in scena gesti e canzone, impeto civile di un divertimento appunto libero. Non è semplice spiegarlo. Alla naturale precarietà del nostro difficile tentativo di raccontare la musica, si aggiungono altri livelli, parlando di lui. Chi non ha avuto la fortuna di assistere a un recital del Signor Gaberscik difficilmente potrà comprendere il coinvolgimento fisico che il suo teatro-canzone sapeva ingenerare. I recital che Giorgio portava in giro per i teatri negli anni 70 erano overdose di intelligenza, perché sferzavano come una sega circolare costumi in irrefrenabile mutazione.

Ma lo facevano utilizzando insieme la parola e il corpo (oltre che la musica). Quegli spettacoli, sia quelli interamente di Gaber, sia quelli allestiti insieme al sodale di 30 anni Sandro Luporini, sono pietre miliari, verrebbe da dire sociologiche, per la loro capacità di mettere a nudo, con pudore e sottigliezza, la tragicità ordinaria dell’esistenza e del vivere insieme. Quanto sia importante l’aspetto corporeo e fisiologico, nell’arte gaberiana, è indiscutibile. Lui, lì, sul palco, un guitto nero, con quei suoi tentacoli – le braccia, il naso, le gambe; le smorfie, i tic, i ghigni, i sorrisi timidi. Insomma un corpo parlante.

Il canzoniere di Giorgio Gaber attraversa quarant’anni cruciali di storia italiana. Una compenetrazione ineguagliata tra pezzi di vita pubblica e privata, tra l’ansia di chi si è sforzato tutta la vita di fare i conti con la misura della propria inutilità, e la rabbia di un maverick meneghino che non ha mai permesso a nessuno di farsi accalappiare.
Lui diceva sempre quello che sentiva vero; lucido, affilato.

Con la sua scomparsa, abbiamo perso un paroliere, un pensatore come pochi autori musicali e sono convinto che in tempo di Covid avrebbe continuato a recitare in modo spudorato e assurdo in che mondo viviamo:

“E tu mi vieni a dire io amo, come se l’amore.
E tu mi vieni a dire io muoio, come se la morte.
E tu mi vieni a dire io soffro, come se il dolore.”

Il Signor “G” venne a mancare nel 2003 per un cancro ai polmoni. La tomba di Giorgio Gaber è nel cimitero monumentale di Milano.

Il Direttore editoriale Carlo Costantini – Foto Luce

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