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Il protagonista di questa storia potrebbe essere chiunque, basterebbe aver giocato in Italia nel corso degli anni ’70. Lui si chiama Gianluca ‘Gil’ De Ponti, ex attaccante di Bologna, Cesena, Sampdoria ed Avellino.

Che giocatore era Gil De Ponti?
«Un giocatore mediocre. Ero un attaccante funambolico, estroso; ma non ho mai fatto tanti gol. Mi sarebbe piaciuto giocare ad alti livelli, invece ho sempre combattuto al massimo per la salvezza in serie A».
Ormai da tanto tempo fuori dal calcio. Lo segue ancora?
«Dopo averlo vissuto dall’interno per tanti anni, adesso sono uscito dal giro e non presto più troppa attenzione. Ma è sempre la mia passione. Seguo con piacere la Fiorentina, ed anche il Bologna naturalmente».
Un giocatore di oggi che le somiglia?
«Difficile, epoche diverse. A noi piaceva giocare a calcio, lottavamo per il risultato; i calciatori di oggi pensano troppo ai soldi, non si divertono più. Noi ci mettevamo l’anima, io stesso pur essendo attaccante mi sacrificavo molto, correvo un po’ dappertutto. Del Bologna mi piace molto Diamanti: generoso e un po’ pazzo proprio come me».
A proposito di pazzia, si vocifera di quella volta con un’anatra al guinzaglio. Una leggenda?
«Nono è tutto vero. Ero a Cesena e, per scherzo, girai in centro con una pelliccia portando a spasso una papera. Ridevano tutti».
Facciamo un salto nel passato. Dopo anni di gavetta nelle serie minori (Impruneta, Terranuovese, San Giovannese, NdA) ecco la chiamata del Bologna, in due momenti diversi. Partiamo dall’ultimo: stagione ’82-83, i rossoblu sono appena retrocessi in serie B per la prima volta nella storia, a meno di 20 anni dal settimo scudetto (’63-’64).
«Ovviamente l’atmosfera non era delle migliori, eravamo appena retrocessi. Dal punto di vista sportivo fu un anno triste: la società di fatto non esisteva, il presidente Fabbretti fu addirittura arrestato, e alla fine scendemmo in serie C. Tuttavia lo ricordo come un momento felice per la mia sfera privata: a Bologna mi sono sposato, è nato mio figlio, e per lunga parte della mia vita sono tornato ad abitare qui. L’anno successivo però abbiamo vinto il campionato e siamo risaliti in serie B».
L’esordio assoluto in rossoblu invece risale all’11 settembre 1977, con tanto di gol a San Siro.
«Sì, a Milano contro l’Inter; cross del mio povero amico Stefano Chiodi, io tiro al volo e batto il portiere Bordon: una gran bella soddisfazione!».
Poi il 1995, ad Avellino nel ruolo di vice allenatore di Papadopulo. Ma…
«Peccato, calcisticamente andò bene e la squadra si salvò. Ma ci fu anche quella storia». Gil aveva un bernoccolo in testa che continuava a crescere, si fece visitare ed il verdetto fu meningioma (ossia tumore benigno); si operò e riprese ad allenare. Successivamente però cominciò ad avvertire la perdita di sensibilità nella gamba sinistra, accompagnata da fortissime emicranie. Ne conseguì un altro intervento, col  verdetto opposto: plasmocitoma (ovvero tumore maligno). C’era stato un errore iniziale, non proprio un dettaglio. Da lì cominciò una causa penale con i medici che sbagliarono la diagnosi, contenzioso che dura tutt’ora in sede civile.
Una sorte che accomuna molti giocatori di quell’epoca.
«Non può essere un caso, molti amici e compagni di allora non ci sono più, e quasi tutti per malattie simili. Ho contato più di 100 morti negli ultimi 30 anni (tra gli altri: Bruno Beatrice, Giorgio Rognoni, Fulvio Zuccheri, Tazio Roversi, Adriano Lombardi, Giuliano Fiorini, Giacomo Bulgarelli). Non posso dire che ci siano responsabilità dirette perché non lo so; sicuramente succedevano cose strane, mai approfondite successivamente: pur di farti giocare e stare in campo ti davano sostanze che non ti facessero sentire alcun dolore; la pubalgia veniva curata infilando un ago sotto il pube: si fa ancora così? A casa ho una foto di squadra del Cesena che ha più croci del cimitero di Campiombi».
Oggi invece c’è più attenzione a queste vicende.
«Chi può dirlo? Di sicuro non ce ne accorgiamo ora. Bisogna vedere come staranno i giocatori odierni tra venti o trent’anni».
Tra gli sfortunati protagonisti del calcio malato di allora c’è senza dubbio Stefano Borgonuovo, che continua la sua lotta contro la SLA. Vi accomuna Firenze e la Fiorentina.  Qualche anno fa venne disputata una partita di beneficenza proprio nel capoluogo toscano. Lei c’era?
«Sì ci sono andato. Ma ho dovuto comprarmi il biglietto, non ero stato invitato».
E quella volta a Terranuova? 
«C’era una partita di livello giovanile, venni a sapere che fu rispettato un minuto di silenzio in mio onore. Dovetti andar lì di persona per far vedere che ero ancora vivo. Tutto sommato, quell’episodio mi ha allungato la vita: mi ha portato fortuna!».
La verità sui fatti di quegli anni – come spesso accade nel Bel Paese – probabilmente non la sapremo mai. Rimane tuttavia la testimonianza di chi quel periodo l’ha vissuto in prima persona. Questa dunque è la storia di Gianluca De Ponti, detto Gil, e soprannominato “Figlio delle Stelle”:
«Roba di fin troppi anni fa – ahimé -, quando non ero ancora sposato e mi divertivo parecchio!»
A cura di Stefano Sasdelli

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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