Non è facile anticipare la propria morte per nessuno, o avere la certezza di morire.
Gianni Rodari, viene ricoverato il 10 aprile 1980 per un intervento alla gamba sinistra dovuto all’occlusione di una vena. Racconta Julia Dobrovolskaja, la sua traduttrice russa che lo va a trovare in ospedale: “Chiesi a Gianni: ‘Hai paura?’. ‘Molta. Temo che non tornerò… Fatemi fumare l’ultima sigaretta!’”. Questa frase imperterrita, mi ha ricordato le stesse parole di di mia nonna paterna che prima di lasciarci per sempre poche ore dopo, chiese del tabacco.

L’operazione si rivela difficile, Rodari presenta un grosso aneurisma di cui i dottori non si sono accorti prima: un intervento di routine si trasforma in un’operazione di sette ore. Muore per un collasso cardiaco. Non ha ancora compiuto sessant’anni. Scrive l’amico e collega Marcello Argilli: “Della morte avevo saputo nella serata del 14, quando Lilli Bonucci dell’Unità mi aveva telefonato a casa chiedendomi di scrivere un necrologio. Era morto nel pomeriggio. Sapevo che doveva operarsi ma niente faceva presagire un esito simile. Non è stato facile scrivere quell’articolo”. Si chiede ai suoi compagni di giornale o di partito (Tullio De Mauro, Paolo Spriano) di scrivere articoli su di lui che usciranno il 16. Senonché il 15 aprile muore Jean-Paul Sartre, l’intellettuale novecentesco per antonomasia. Si cerca invano così, sulla stampa non comunista di quei giorni, un necrologio degno di questo nome per lo scrittore di Omegna. Si trovano, invece, sulla Repubblica, due pagine dedicate a Sartre e una domanda, la cui risposta è affidata a Pier Aldo Rovatti: cosa gli dobbiamo?

Forse, nel 1980, il senso di un debito verso Sartre è tale da far venire meno il dubbio che la stessa domanda si possa porre, proprio nella pagina accanto, anche su Gianni Rodari di cui viene riconosciuto come genio ma non il lascito: in pochi, davvero in pochi, si chiedono in quel momento “cosa gli dobbiamo”, come se la sua eredità fosse impalpabile, non quantificabile, destinata a scomparire visto che ogni bambino prima o poi diventa un adulto e di Rodari sembra non avere più bisogno.

Oggi potremmo invece decidere che Sartre e Rodari sono uno accanto all’altro nella storia degli intellettuali del novecento ai quali “dobbiamo qualcosa”. E che il metodo indicato da Rodari, l’uso dialettico dell’immaginazione, è anzi necessario, un “passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo, alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo”.

Ci sono, certo, eccezioni importanti che immediatamente fanno i conti con quello che Rodari ha rappresentato nel panorama culturale italiano (perché non bastano, nella nostra storia culturale, i fantastilioni di lettori che l’hanno letto e amato per inserire uno scrittore nel “canone”). Tullio De Mauro, per esempio, che fin dal 1974 definisce Rodari un classico, nel senso usato da Italo Calvino, suscitando l’ilarità dello stesso Rodari che se lo appunta sulla giacca con un cartello. Un classico, come Collodi, come De Amicis e viene in mente che quando muore Edmondo De Amicis, nel 1908, dalla riviera ligure a Torino due ali ininterrotte di folla ne salutano il feretro che viaggia in treno. Sarebbe piaciuto a Rodari attraversare l’amatissima Italia con una locomotiva, ci avrebbe scritto di certo una filastrocca che immaginiamo più o meno così: c’era un tale di Omegna e non di Vipiteno/ Che al suo funerale c’era andato proprio in treno… Così lo descrive Vanessa Roghi, in quello che definisco il più bel romanticismo del classico italiano e Rodari amavi esserci dentro. Ma non solo, sono convinto, che i suoi libri sono una fonte piena di saggezza, sono filastrocche di pedagogia, utili alla crescita di ogni bambino.

Rodari ha rappresentato una specie di flauto magico, dove ogni parola era come una nota, sempre intonata, con una ortografia, una punteggiatura da fare invidia al mondo delle api. Tutto era come una favola incantata che spesso raccontava la realtà sociale di quel periodo nazionale fin troppo ignorante nel lessico, ecco perchè per me, Gianni Rodari era per pochi eletti, ovvero per coloro che il giornale non solo lo scrivevano, ma erano capaci di leggerlo inebriati dal profumo dell’inchiostro, di una stampa che macchiava le mani.

Il Direttore editoriale Carlo Costantini – Foto Paola Rodari (si ringrazia)

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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