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Non è uno scherzo. E’ davvero così. La Legge Fallimentare attuale, R.D. 16/03/1942 n. 267, entrò in vigore proprio mentre Vittorio Emanuele III°, figlio di Umberto I°, era il Re d’Italia. Ad onor del vero, la legge in questione, durante questi settant’anni, ha subito numerose modifiche ma, comunque ancora oggi, i cardini centrali sono rimasti quelli stabiliti durante “l’Italia savoiarda”. Fallimento e bancarotta, non sono la stessa cosa. Tralasciando volutamente altre fattispecie di minore importanza, la bancarotta, che si distingue in semplice e fraudolenta, è un reato connesso al fallimento che è punito con la reclusione. La fattispecie più punita, è la bancarotta fraudolenta, che è appunto il reato per il quale era imputato Giardiello, autore dei recentissimi fatti accaduti all’interno del palazzo di giustizia di Milano. L’articolo 216 della legge fallimentare, punisce con la reclusione da 3 a 10 anni l’imprenditore dichiarato fallito che:
– ha distratto, occultato dissimulato, distrutto in tutto o in parte i suoi beni, ovvero allo scopo di creare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;
– ha sottratto distrutto o falsificato in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, i libri o le altre scritture contabili … omissis …
Pare evidente, che il legislatore intenda punire condotte dolose, talvolta premeditate, atte a nascondere e a recare danno patrimoniale ai soggetti creditori del fallito. Certamente, il terrore del carcere, non aiuta quell’imprenditore in difficoltà, che è costretto a convivere nel contesto di crisi come quello in cui l’Italia si trova, ormai dal 2007. Taluni soggetti, consapevoli che gli affari vanno male, talvolta, con le loro volontarie e censurabili condotte, possono creare seri danni ai terzi, che durante la vita dell’impresa, hanno avuto rapporti con essa. Il mio personale pensiero sulla ratio e sull’efficacia della norma e della pena conseguente, si basa proprio sull’analisi dei motivi che hanno portato l’imprenditore a porre in essere determinate azioni. Sono fermamente convinto che la reiterata volontarietà di instaurare azioni criminali dolose, debba essere compiutamente punita, soprattutto quando determinati comportamenti, hanno generato e/o sono stati la causa di altri dissesti: vedasi ad esempio quell’imprenditore, che ha consapevolmente depauperato il patrimonio della sua ditta / società, che in conseguenza del proprio fallimento, abbia contribuito a provocarne altri in capo a soggetti che in buona fede, hanno creduto nel primo. Sottolineo che io condivido la punibilità della condotta ma non dico che la punizione debba necessariamente essere il carcere. Nei reati contro il patrimonio, privare della libertà personale gli individui, certamente non porta beneficio a coloro che materialmente pagano le conseguenze di un fallimento, parimenti, indicare una valida ed efficace alternativa non è facile. Se è vero che in Italia “nessuno è più potente del Papa del Re e del nullatenente”, le istituzioni dovrebbero a mio avviso lavorare su forme di punizione alternativa, che oltre al recupero del reo, portino concreto vantaggio alle persone offese.

A cura di Prof. Pierluigi Vigo – Foto Archivio

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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