Gianni Brera sicuramente lo avrebbe accostato a Pelè. Nato a Milano il 13 novembre 1914, già da piccolo conosce la magia del grande spettacolo assistendo alle rappresentazioni delle opere composte dal padre, il musicista Felice Lattuada. Più di quella della Scala, però, saranno le platee del mondo del cinema ad attrarre la sua attenzione. Prima di conseguire la laurea in Architettura, scrive e pubblica racconti e poesie, mentre scopre l’amore per il grande schermo che lo spinge profondamente a ricercare, collezionare copie di film destinate al nulla. Alla fine degli anni ’30, insieme a Mario Ferrari e Gianni Comencini inizia a gettare la sua fondamenta, quella che diventerà la Cineteca italiana che avrà il merito di salvare opere come Femmine folli (1921) di Erich von Stroheim, Il monello (1921) di Chaplin, alcuni capolavori di Fritz Lang e René Clair, nonché la Lulù di Pabst e L’angelo azzurro di Sternberg.

Dopo essersi interessato anche alla fotografia e alla critica cinematografica, collabora straordinariamente in veste di sceneggiatore e aiuto regista a Sissignora (Ferdinando Poggioli, 1941) e Piccolo mondo antico (Mario Soldati, 1941). Esordisce, invece nella regia con Giacomo l’idealista (1942). Un debutto anche per Carlo Ponti come produttore e per Marina Berti, bella protagonista accanto ad un altrettanto bello Massimo Serato. Dopo questa prima bellezza, dirigerà una fitta schiera di splendide attrici, compresa Carla Del Poggio, divenuta sua moglie, che all’epoca de Il bandito (1946) è già celebre per aver interpretato la deliziosa Maddalena…zero in condotta (Vittorio De Sica, 1940).

Considerato nel primo dopoguerra uno dei più originali esponenti del neorealismo (mi sarebbe piaciuto studiarlo nei periodi vissuti a Roma), successivamente mostra di prediligere la trasposizione delle opere di grandi autori come Riccardo Bacchelli (Il mulino del Po, 1949), Gogol (Il cappotto, 1952), Verga (La lupa, 1953).
Nel 1951 Anna incassa un miliardo in Italia e viene ugualmente acclamato negli Stati Uniti, grazie anche alla presenza della Mangano, futura figlia del capitano nella mega produzione La tempesta (1958).

Già dagli anni ’50 i suoi film incorrono nelle ire della censura, come La spiaggia (1954), dove non esita a denunciare pregiudizi e ipocrisie della morale piccolo borghese nei confronti di una prostituta nella capitale. In seguito pur continuando a portare sullo schermo opere letterarie, realizza un cinema aderente alla vita contemporanea e mostra un vivo interesse per il mondo dell’adolescenza, o meglio per quel magico periodo di passaggio che fa diventare una ragazzina una donna. Con Guendalina e I dolci inganni (1960) porta al successo due giovanissime Jacqueline Sassard e Catherine Spaak, a cui seguiranno altre celebri fanciulle in fiore, come Ewa Aulin (Don Giovanni in Sicilia, 1967), Teresa Ann Savoy (Le farò da padre, 1974), Nastassja Kinski (Così come sei, 1978) o Barbara De Rossi e Clio Goldsmith (La cicala, 1980).

Dopo aver subito i tagli della censura per queste educazioni sentimentali troppo esplicite per gli anni ’60, si diverte a catapultare Ugo Tognazzi in un ‘harem’ composto da tre zitelle, le sorelle Tettamanzi, talmente vogliose di un uomo che sono anche disposte a spartirselo, anche a letto (Venga a prendere il caffè…da noi, 1970, dal romanzo di Piero Chiara “La spartizione”). Nel corso della sua carriera esplora tutti i generi cinematografici e negli anni ’80 si dedica quasi esclusivamente alla televisione, a partire dal kolossal “Cristoforo Colombo” (1985), a cui seguono “Due fratelli” (1987) e “Mano rubata” (1988).

Alberto Lattuada, figlio di Milano, della Madunina, ancora oggi rappresenta per il nostro paese, l’idealista del dopo, di quella moralità che pochi Sindaci, pochi governatori, pochi politici sanno riprendere per un film che dovrebbe avere come titolo: Un’Italia migliore” senza tangenti, concussioni, collusioni con il marcio e il macero

Il Direttore editoriale Carlo Costantini – Foto Cinecittà

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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