Un virus influenzale mi ha tenuto in casa per quattro giorni, i giorni che hanno cambiato il mio modo di considerare un’alluvione. Tra raffreddore, tosse e laringite, ho vissuto i momenti dell’acqua fangosa seguendola tramite web e alcune interminabili dirette sul canale news della televisione di Stato. La sensazione che provavo nel vedere quelle immagini di strade ridotte ad un vero e proprio acquitrino con ai lati enormi cataste di mobili e oggetti cari, che fino a un paio di giorni prima facevano bella mostra su tavolini e tavolinetti di case, uffici, negozi, cortili e scantinati, invasi dall’acqua del fiume esondato, e ora totalmente mimetizzati dalla mota e destinati alle isole ecologiche, era simile a quella che mio padre aveva vissuto durante la seconda guerra mondiale con le macerie al posto degli arredi.

Ho scelto quindi di togliere il colore alle immagini puntando ad un bianco e nero virato sul blu più adatto alla circostanza. Più passavo le ore, i giorni, a visionare immagini violente e commenti di persone a cui il fiume aveva trascinato via con sé il loro passato lasciandoli con un futuro incerto, steso sul letto tra il dormiveglia dovuto ai farmaci e alla completa assenza di forze, maggiore era il senso di incredulità sospesa che mi affliggeva, assuefatto com’ero e per questo incapace di reagire, anche davanti all’ennesima violenza subita dalla mia terra.

Giovedì, 18 maggio, alle 15,30, dopo essermi imposto di seguire l’arrivo di tappa del Giro d’Italia per evitare di andare in overdose da immagini, la mia mente è entrata in modalità protezione, mettendo in atto la sospensione dell’incredulità, da quell’istante, in me era scattata la convinzione che le immagini angoscianti alle quali stavo assistendo e i racconti allucinanti che ascoltavo, non erano reali, sospesi l’atteggiamento critico e mi rincuorai certo che si trattasse solo di una rappresentazione legata al mondo della fiction.

Il panorama tragico che attraverso gli occhi guingeva al capolinea del mio cervello, amplificato dalla lente dell’irreale, mi impediva di soffrire per quella calamità naturale, per quanto evento traumatico nello spazio reale, la mia mente lo catalogava come qualcosa che non esisteva a cui non credere, frutto di un opera artificiale, artefatta, uscito dalla penna di un ottimo autore di docu-fiction, e tutto questo era suffragato dal fatto che, aprendo le finestre della mia camera, le persone che camminavano in strada erano esattamente le stesse di sempre, intente a portare il cane a sgambare nel giardino pubblico o a raggiungere i tanto sospirati diecimila passi camminando lungo il percorso segnato. Poi, a stravolgere il tutto, è arrivata la domenica e con lei la completa guarigione.

Dopo quelle interminabili ore passate a guardare un prodotto di Real-Tv che comunque riusciva a trasmettermi una profonda inquietudine, potevo finalmente tornare al mondo reale, dove la primavera aveva sconfitto definitivamente l’inverno e il glicine in fiore emanava il suo dolce profumo attirando a se gruppetti di api inebriate. Quando sono arrivato nella cosiddetta flooded area, ho cominciato a vagare come un automa scavalcando pietre e fango poi, la mia mano destra è entrata nella tasca del K-Way in cerca del telecomando perché, come Chanche Gardiner, il protagonista del film “Oltre il giardino”, avrei voluto puntarlo con decisione in direzione di quell’immagine così violenta, con l’intento di cambiare “canale” per allontanare da me la realtà di un mondo che i miei occhi non volevano accettare. Era tutto vero.

A cura di Marco Benazzi editorialista – Foto Imagoeconomica

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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