Quattro micro imprese su 10, poco meno di 1,7 milioni di attività, rischiano la chiusura a causa della crisi economica provocata dall’emergenza Covid-19. Lo rileva la Cgia sulla base dei risultati dell’Istat sull’andamento dell’economia italiana.

“Ci riferiamo – spiega Zabeo – a quel ceto medio produttivo costituito da imprese dei servizi, negozianti, botteghe artigiane e partite Iva con meno di 10 addetti che dopo il lockdown non si sono più riprese e, ora, hanno manifestato l’intenzione di chiudere per sempre. I settori più vulnerabili alla crisi emersi da questa indagine sono stati i bar, i ristoranti, le attività ricettive, il piccolo commercio, il comparto della cultura e dell’intrattenimento. Nel produttivo – aggiunge Zabeo – le difficoltà hanno investito soprattutto il settore del mobile, del legno, della carta e della stampa, nonché il tessile, l’abbigliamento e le calzature.

Una situazione ritenuta irreversibile che sta inducendo tanti piccoli imprenditori a gettare definitivamente la spugna”.

La Cgia torna a chiedere che con il decreto di agosto le micro realtà commerciali e produttive più fragili all’emergenza Covid siano aiutate a rimanere in vita, per esempio, attraverso una ulteriore e più robusta erogazione di contributi a fondo perduto; e poi con la cancellazione delle scadenze fiscali erariali, almeno sino a fine 2020. Le previsioni, purtroppo non lasciano presagire nulla di buono. La Cgia ricorda che nel 2009 il Pil era sceso del 5,5%, mentre il tasso di disoccupazione nel giro di 2 anni è salito dal 6 al12%.

Con un Pil che nelle più rosee previsioni quest’anno dovrebbe calare del 10%, quasi il doppio della contrazione registrata nel 2009, il pericolo che il numero dei disoccupati aumenti esponenzialmente è molto alto.

“La chiusura dovuta alla crisi di molte piccole attività”, sottolinea la Cgia, “ha anche delle ricadute sociali altrettanto negative. Quando chiude definitivamente la saracinesca un piccolo negozio o una bottega artigiana si perdono conoscenze e saper fare difficilmente recuperabili e la qualità della vita di quel quartiere peggiora a vista d’occhio. Inoltre, viene meno un punto di socializzazione, c’è meno sicurezza, più degrado e la qualità della vita di quel luogo peggiora.

Oltre a dare liquidità, tagliare le tasse e alleggerire la burocrazia, è necessario rivalutare il lavoro manuale. Negli ultimi 40 anni c’è stata una svalutazione culturale che è stata spaventosa. Attraverso le riforme della scuola avvenute in questi ultimi anni e, soprattutto, con il nuovo Testo unico sull’apprendistato, alcuni passi importanti sono comunque stati compiuti.

Ma non basta. Bisogna fare una vera e propria rivoluzione per ridare dignità, valore sociale e un giusto riconoscimento economico a tutte quelle professioni dove il saper fare con le proprie mani costituisce una virtù aggiuntiva che rischiamo colpevolmente di perdere”.

A questo proposito, la Cgia cita un altro “paradosso: mentre tante micro attività chiudono, molti settori, almeno fino a poco tempo fa denunciavano la difficoltà a reperire personale qualificato. Ci sono realtà”, sostiene l’associazione, “dove fino allo scorso mese di febbraio si faceva fatica ad assumere autisti di mezzi pesanti, conduttori di macchine a controllo numerico, tornitori, fresatori, verniciatori e battilamiera.
Senza contare che nel mondo dell’edilizia è sempre più difficile reperire carpentieri, posatori e lattonieri”.

A cura di Renato Lolli – Fotolia

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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