“Adesso tocca a me, sarò io il prossimo”.

E’ la sera del 19 luglio 1992, a Palermo, ed a pronunciare queste terribili parole è il giudice Paolo Borsellino, quando lascia la camera d’ospedale dove è appena spirato, tra le sue braccia, il collega ed amico fraterno Giovanni Falcone, vittima di un tremendo attentato a Capaci, in cui sono morti anche la moglie, Francesca Morvillo, e tre agenti di scorta.

Falcone e Borsellino fanno parte della Procura di Palermo, lavorano a stretto contatto dai tempi del pool antimafia voluto da Rocco Chinnici nel 1980, ucciso a sua volta in un attentato nel 1983, cui succede poi Antonino Caponnetto.
L’uccisione di Falcone arriva dopo anni in cui il magistrato subisce ogni tentativo di delegittimazione sua e del lavoro svolto, portando allo scoperto la trattativa della mafia con lo Stato, con la politica collusa, con il mondo dell’alta finanza; il tentativo di sfuggire all’inasprimento delle pene e delegittimare quei collaboratori di giustizia di cui proprio Falcone iniziò a raccogliere le dichiarazioni.
Borsellino sa che ha poco tempo e vuole fare in fretta, vuole che mandanti ed autori della strage di Capaci siano individuati ed assicurati alla giustizia; vuole scoperchiare quel vaso di serpi prima che anche per lui sia troppo tardi, pur se non è di se stesso che si preoccupa.
Come per Falcone, anche intorno a Borsellino vengono eretti veri e propri muri, compreso dentro il Palazzo di Giustizia, dove anche i muri hanno orecchie e dove non è certo un problema mettere i bastoni tra le ruote del suo lavoro.
Tanti sono i fatti che si succedono mentre il tempo, i giorni, trascorrono inesorabili, sino al 19 luglio, una domenica, in cui Borsellino dopo aver pranzato con la famiglia a Villagrazia di Carini, decide di far visita alla madre, che abita a Palermo, in via D’Amelio 21.

Sono quasi le diciassette quando il giudice ed i sei agenti di scorta arrivano in quella che è una via poco più larga di un vicolo, resa ancora più stretta dalle auto parcheggiate; il giudice e cinque agenti scendono dalle auto e pochi attimi dopo una tremenda deflagrazione scuote l’intero rione…
Quasi cento chili di esplosivo a bordo di una Fiat 126 sono ciò che la mafia utilizza per uccidere Paolo Borsellino e con lui: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina; mentre Antonino Vullo si salva unicamente perché stava parcheggiando l’auto di cui era alla guida.
Via D’Amelio sembra un campo di battaglia, auto che bruciano, i sei corpi dilaniati, le case intorno che paiono finite sotto un bombardamento. Palermo è ancora una volta al centro di una guerra senza fine.
Sono passati venticinque anni da Capaci e via D’Amelio, tanti ne sono stati sprecati prima di ricominciare quella lotta di cui Falcone e Borsellino tracciarono la via per metodi ed intensità, sacrificando consapevolmente la loro stessa vita; tanti ne serviranno ancora, ma di una cosa si può essere certi… Falcone e Borsellino sono vivi e fanno paura, perché altrimenti attentare ancora a loro attraverso i ricordi che Palermo ha voluto dedicargli? Perché distruggere una stele, danneggiare un monumento o una scuola se il loro lavoro, la loro lotta non fosse un esempio da seguire?

Falcone e Borsellino, accomunati da una vita al servizio dello Stato, quello Stato per cui sono morti, quello Stato che li ha mandati a morte!

Il Direttore Responsabile Maurizio Vigliani

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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