Il 30 aprile 1975, i carri armati dell’esercito popolare vietnamita abbattono il cancello del palazzo presidenziale di Saigon, mettendo di fatto fine alla guerra del Vietnam. Un conflitto che termina con la conquista della capitale del Sud da parte dei nordvietnamiti che riunificano il Paese e, l’anno successivo, proclamano la Repubblica Socialista del Vietnam.

Tale conflitto ha causato, secondo le stime, la morte di 58.220 soldati statunitensi, 250mila militari sudvietnamiti e oltre tre milioni di soldati e civili nordvietnamiti. Numeri spaventosi. Il conflitto risulta, in parte, nuovo, per le atrocità delle armi usate. Gli aerei statunitensi utilizzano infatti armi chimiche, come il napalm e l’Agent Orange (un defoliante velenossissimo ed altamente tossico), che vengono utilizzate contro obiettivi militari ma anche per bruciare le piantagioni, così da distruggere i raccolti del nemico.
In questi bombardamenti perdono la vita centinaia di migliaia di persone, che subiscono le conseguenze dall’alta tossicità delle armi impiegate.

Nick Turse, autore del saggio “Così era il Vietnam. Spara a tutto ciò che si muove”, non si basa solo sui documenti segreti che vennero prodotti dal Vietnam War Crimes Working Group, ma anche su numerose interviste fatte da Turse ai reduci del Vietnam. Naturalmente gran parte degli atti processuali o delle indagini che vennero condotte dall’ esercito e dai marines sui crimini di guerra commessi durante la guerra del Vietnam sono scomparsi. I soldati americani trattavano i vietnamiti come essere subumani. Dimostrare la credibilità di questa tesi è estremamente e drammaticamente agevole.

Il figlio del celebre generale Patton – e cioè Patton junior – era conosciuto dalle truppe americane per un macabro souvenir che era solito tenere sulla scrivania e cioè un teschio di un soldato vietnamita che portava con sé addirittura alle feste di addio o al termine dei suoi turni di servizio; alcuni soldati semplici invece tagliavano le teste ai soldati morti per tenerle, venderle o scambiarle con i premi che i comandanti offrivano loro. Tuttavia, molto più numerosi erano quei soldati che tagliavano le orecchie alle loro vittime utilizzandole come trofei donati ai superiori come regali o come prove per confermare il numero dei nemici abbattuti. In alcuni casi, le reclute conservavano le orecchie dei soldati uccisi portandole al collo con dei lacci o esibendoli in qualche altro modo come collana. Un’altra pratica usata con una certa frequenza era quella di lanciare i cadaveri dagli aerei per determinare un effetto psicologico di terrore.

Quest’innumerevoli atrocità erano anche il risultato dell’addestramento militare che aveva scopi precisi. Partendo dal fatto che gran parte dei soldati che combattevano in Vietnam non avevano più di vent’anni, questi venivano sottoposti a intensi stress psicofisici allo scopo di creare una vera e propria tabula rasa che avrebbe facilitato l’indottrinamento militare. Uno degli slogan maggiormente usati durante l’addestramento era quello di uccidere senza pietà. Un’altra tecnica di spersonalizzazione era relativa ai nemici che venivano definiti musi gialli o nanerottoli allo scopo di disumanizzarli. A causa di questo addestramento la differenza fra militari e civili era vanificata. Infatti qualunque cosa si muovesse nei villaggi sia che fossero donne che bambini era da considerarsi un nemico. Naturalmente l’addestramento sottolineava l’importanza della obbedienza cieca ai comandanti. Uno degli slogan più terrificanti che veniva utilizzato per sintetizzare la forma mentis dell’addestramento era la seguente: “il soldato più libero è quello che si sottomette volontariamente all’autorità“.

In questo senso, il noto film “Full metal Jacket”, diretto da Stanley Kubrick, ne dà una triste ed autentica rappresentazione. Una delle pratiche più diffuse durante la guerra del Vietnam fu la competizione fra unità: infatti gareggiavano le une con le altre con lo scopo di raggiungere i numeri di morti più alti. Apparvero veri e propri tabelloni dei risultati e cioè grafici presenti nelle basi militari che indicavano quanti morti erano stati fatti durante la settimana. Non aveva alcun importanza se le vittime fossero soldati vietnamiti oppure donne e bambini. A scanso di equivoci, occorre sostenere, con chiarezza, che le atrocità furono commesse da entrambe le forze. Anche i cd. “Viet Cong”, il gruppo armato di resistenza vietnamita contro il regime filostatunitense del Vietnam del Sud, unitamente ai comunisti russi e cinesi che li appoggiavano, non offrivano di certo un caffè ai soldati americani caduti prigionieri.

A parità diatrocità e violenze, la differenza è stata fatta proprio dalla stampa, nei Paesi occidentali di allora libera, che ha potuto riportare, con coraggio ed autonomia di pensiero, la realtà della guerra. Proprio questi terribili aspetti del conflitto, infatti, cominciano ad avere una grande rilevanza sui media statunitensi e internazionali, alimentando il fronte dei contrari all’azione bellica. Gli oppositori, con il passare dei mesi e degli anni, si organizzano e danno vita a un movimento pacifista che, nel giro di un decennio, arriva ad essere molto influente nel Paese. Come si può non ricordare la data del 15 ottobre 1969, quando folle immense si misero in marcia negli Stati Uniti per protestare contro la guerra. Una data storica, che impresse una svolta alla società americana e segnò l’inizio di un nuovo movimento pacifista su base globale.

‘Moratorium to end the war in Vietnam’ fu la prima manifestazione capace di mobilitare centinaia di migliaia di persone in diversi Stati, unificando su un solo obiettivo molti segmenti della società americana, studenti, lavoratori, minoranze, artisti e intellettuali. Sarebbe rimasta, negli anni a venire, la straordinaria importanza di quelle mobilitazioni che contribuirono fortemente alla fine della guerra e misero le basi per uno dei pochi movimenti di massa che ha oltrepassato, venendo dal Novecento, la soglia del XXI secolo. Ad alimentare questa voglia di pace anche il lavoro dei giornalisti che, a seguito delle forze armate, per la prima volta riescono a dar conto degli avvenimenti senza essere censurati.

E’ con la guerra del Vietnam, infatti, che la televisione diventa un mezzo dotato di un peculiare racconto giornalistico, che si esprime con modalità proprie sia in presenza che in assenza di censura, sia con immagini di morte e orrore che con i puliti voli degli aerei e delle armi intelligenti. L’immagine televisiva sembra parlare da sola, avere un senso compiuto in sé, immediato, anche in assenza della mediazione giornalistica, di chi dovrebbe fare diventare il fatto una notizia. Di fronte a questa novità nella rappresentazione della guerra sarebbe profondamente cambiata l’interdipendenza tra sistema dell’informazione e sistema politico.

Due sono i messaggi che sono arrivati da questa guerra. Parlare di guerre pulite è soltanto un’ipocrisia. Le guerre sono sempre sporche, indipendentementedalla parte politica o dallo Stato che le inizia. Chi le fa – non chi le teorizza dentro un’aula accademica o in un centro di ricerca – non può non macchiarsi le mani di sangue e di fango. Tutti gli Stati durante i conflitti bellici usano un modus operandi analogo a quello delle organizzazioni criminali. Gli stupri di guerra, le violenza indiscriminate su donne e bambini come l’uso della tortura sono azioni analoghe a quelle poste in essere dalle principali organizzazioni mafiose. Parificati, a tutti gli effetti, ai crimini nazisti ed a quelli commessi nei campi di concentramento. E non devono essere considerati eventi occasionali, ma costanti.

A cura di Dott. Avv. Costantino Larocca – Foto Getty Image

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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