Dopo anni magari viene erogato un indennizzo a favore dei parenti, con un biglietto di scuse che potrebbe suonare più o meno così: “Scusate se per un errore di valutazione abbiamo condannato ingiustamente un vostro caro alla pena di morte”.

Il caso di Nie Shubin, un giovane cinese della provincia di Hebei, ha sconvolto l’opinione pubblica mondiale, riaccendendo ancora una volta il dibattito relativo alla giustizia, alla pena capitale e ai diritti umani: il ragazzo, a soli 21 anni, venne condannato a morte con l’accusa di aver rapito e ucciso una donna quello stesso anno, nel 1995.

Ora, a distanza di anni, è stato scagionato dalle accuse dal secondo tribunale circondariale di Shenyang, sotto la Corte suprema del popolo. La Corte ha disposto l’avvio di una istruttoria su “conseguenti indennizzi, assistenza giudiziaria e ripercussioni legali per le parti responsabili” del clamoroso caso.

I nodi arrivarono al pettine quando, nel 2005, un altro uomo, Wang Shujin, confessò la responsabilità del delitto scagionando il ragazzo. A dicembre del 2014, la Corte suprema del popolo assegnò la revisione del processo alla corte della provincia di Shandong che trovò molte incongruenze per poter confermare la sentenza.

Poi la Corte suprema decise di rifare nuovamente il processo a giugno 2016 e il secondo tribunale circondariale di Shenyang riesaminò tutti di documenti, fino all’audizione della Procura suprema del popolo secondo cui le prove presentate nel processo originario erano assolutamente insufficienti per poter procedere ad una condanna.

La Corte suprema del popolo ha alla fine dichiarato innocente Nie puntando il dito contro le “evidenti lacune”, tra cui l’impossibilità di definire tempo e arma usata per l’omicidio. Intanto, una vita, insieme alle esistenze di chi conosceva Nie, sono andate distrutte per sempre.

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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