E’ un sabato, il 23 maggio 1992, un giorno come tanti altri, che scorre nelle cose di una giornata come tante altre.
Sono circa le 17, ed all’aeroporto palermitano di Punta Raisi due persone scendono da un aereo; sono un uomo ed una donna e ad attenderli, in una zona non troppo esposta, trovano tre auto e diverse persone.
Un breve saluto e si sale sulle Fiat Croma, con l’uomo appena arrivato che si siede al volante dell’auto di mezzo, con accanto la donna e chi ha prima guidato l’auto che si accomoda sul sedile posteriore.
Si parte e ci si avvia verso l’autostrada che conduce a Palermo, in una fila che sa di convoglio “speciale”, senza però sirene, segni particolari, e senza forzare l’andatura in maniera particolare.
Pochi chilometri, cinque per l’esattezza, e mentre si avvicina lo svincolo di Capaci…
BBBBUUUUMMMMM!!!!!!
Un’esplosione immane apre letteralmente la strada, un nuvolone di fumo si alza verso il cielo mentre il rimbombo della deflagrazione ancora non è finito!
La corsia verso Palermo è diventata un cratere enorme, con carcasse d’auto disseminate per ogni dove e le urla dei feriti che iniziano a farsi sentire; la Croma che guidava il piccolo convoglio è un ammasso di rottami atterrato a cento metri dal luogo dell’esplosione; per i suoi occupanti, gli agenti di scorta Vito Schifani (27 anni), Rocco Dicillo (30 anni) e Antonio Montinaro (29 anni), non c’è nulla da fare.
La seconda auto finisce la propria corsa contro il muro di detriti sollevato dall’esplosione; alla guida c’è il giudice Giovanni Falcone, di fianco a lui la moglie, anch’essa magistrato, Francesca Morvillo, mentre sul sedile posteriore si trova l’autista del giudice: Giuseppe Costanza.
Coinvolta nell’attentato è anche la terza vettura, i cui occupanti sono: Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello, che pur feriti, scendono immediatamente per proteggere e prestare i primi tentativi di soccorso al Giudice, alla moglie ed ai colleghi.
I soccorsi vengono immediatamente allertati, anche perché i mezzi che transitavano in quel momento sull’autostrada erano molti e c’è un via vai di ambulanze e pompieri, mezzi di polizia e carabinieri, mentre la notizia dell’attentato fa il giro del mondo.
E’ un sabato pomeriggio come tanti, la televisione è accesa ed alle 18 le trasmissioni si interrompono per un’edizione speciale del telegiornale che ha un titolo drammatico: attentato al giudice Falcone, coinvolti la moglie e la scorta; ci sono morti e feriti!
Le prime notizia parlano di Falcone ferito, sembra in modo grave, così come la moglie, l’autista ed i componenti dell’auto che chiudeva il convoglio, mentre per i tre agenti che aprivano la fila con la loro auto, la morte è stata terribile quanto istantanea.
Le notizie si accavallano, così come le immagini e le dichiarazioni di magistrati, politici, persone in qualche modo coinvolte nella vita e nel lavoro di Giovanni Falcone.
Come al solito ci si interroga, tra lo sgomento, ma appare subito chiaro che è la mafia ad aver colpito, quella mafia a cui Giovanni Falcone aveva dichiarato guerra, quella mafia che il giudice aveva colpito duramente ed ancor più duramente avrebbe perseguito se…
Sono le 19,05 quando arriva la notizia che il giudice Falcone non ce l’ha fatta, è morto per le gravi lesioni riportate, contro cui l’opera dei medici nulla ha potuto; tre ore dopo anche Francesca Morvillo cessa di vivere, anche per lei tutto è stato inutile; entrambi erano senza cinture di sicurezza ed il tremendo impatto ha causato traumi irrimediabili.
C’è sgomento tra colleghi ed amici, anche se non tutti erano da considerarsi amici veri, perché Giovanni Falcone, è spesso stato al centro di polemiche, veleni, situazioni che il suo carattere e la sua perseveranza nel lottare contro il potere mafioso, gli avevano procurato.
Non solo la mafia gli era nemica, perché Falcone aveva scavato e stava scavando in quel sottobosco di legami cui proprio la politica ed addirittura la stessa magistratura non erano esenti, tanto da fargli dire che la mancata investitura a capo del pool antimafia di Palermo, era null’altro che il via libera alla sua uccisione.
Mafia, politica, magistratura stessa, contribuirono tutte insieme alla fine di Giovanni Falcone, un uomo libero che lottava contro un potere fatto di uccisioni, corruzione, traffici illeciti; lottava consapevole che il prezzo sarebbe stata la sua stessa vita, ma che non fece mai un passo indietro e mai si dichiarò sconfitto, nonostante i veri e propri soprusi di cui fu vittima.
Era un servitore dello Stato, Giovanni Falcone, uno di quelli alla cui morte si fece festa nel carcere palermitano dell’Ucciardone; era un servitore dello Stato, Giovanni Falcone, uno di quelli per cui molti versarono lacrime, anche se, siamo alle solite, non tutte erano lacrime vere come quelle del collega ed amico Palo Borsellino, colui che più aveva lavorato a strettissimo contatto con Falcone.
Proprio Paolo Borsellino capì che dopo Giovanni sarebbe toccato a lui ed ingaggiò una lotta contro il tempo per arrivare a mandanti ed esecutori dell’attentato all’amico fraterno.
Il 19 luglio 1992, 57 giorni dopo l’attentato di Capaci, Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta morirono a causa di un altro attentato “al tritolo”, mentre il magistrato si recava in visita alla madre, in via D’Amelio, a Palermo.

Il Direttore Responsabile Maurizio Vigliani

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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